La Guerra

 

Da quando gli uomini hanno imparato ad appuntire un ramo o un sasso il lor giuoco preferito è questo: una banda d’armati va contro un’altra banda e fanno a chi n’ammazza di più.

Gli omicidi isolati che pure, annata buona o cattiva, eguagliano i caduti d’una gran battaglia, non bastano a satollare la nostra eterna richiesta di cadaveri. Vogliamo gli omicidi in massa, l’assassinio all’ingrosso, la rissa in grande, il duello di milioni contro milioni. Non c’è anno, nelle storie del mondo, che non sia segnato da una di queste colluttazioni che finiscono in strage. Sul primo eran tribù che volevano impadronirsi di donne e di bovi; poi città che volevano ingrandirsi e arricchirsi a spese d’altre città; finalmente repubbliche e imperi che si affrontavano per rubarsi l’un coll’altro provincie e regni. Sono andati crescendo gli appetiti di vastità, i combattenti di numero, gli ordini per uccidere di potenza ma il fatto è rimasto il medesimo: il ladrocinio per mezzo del massacro.

Certi difenditori della guerra – ché ogni delitto ha il suo avvocato – distinguono tra guerre giuste e guerre ingiuste, le prime sante, l’altre esecrande. Ma guerre giuste non posson essere, secondo loro, che quelle di liberazione o difesa – cioè proprio quelle che nessuno farebbe se non ci fosse, prima, l’ingiustizia e la guerra illegittima. Se un paese è obbligato a difendersi vuol dire che un altro l’ha aggredito; e un popolo non farebbe guerra di redenzione se non ci fosse innanzi un oppressore. Se un assassino mi assalta e io, per salvarmi, l’ammazzo invece di punirmi dicono che ho fatto bene ma il mio caso non dimostra che l’assassinio in generale, e neppure il mio, sia un bene; anzi il contrario. E’ un male reso necessario da un male e se l’assolvono i giudici di quaggiù non è certo che l’approvi anche il Giudice di tutti i giudici.

Tutte le guerre, dunque, sono ingiuste e ritorsioni di guerre ingiuste e se l’ingiuste non fossero non vi sarebbero neppur quelle che si dicon giuste, e certe guerre che paion giuste a chi le fa non sempre son giuste. Tempo fa una nazione rubò una provincia ad un’altra; questa, profittando d’una occasione, fa guerra per riaverla; chi la possiede oggi afferma di far giusta guerra difendendosi; l’assalitrice, ricordando che quel territorio le fu sottratto, ha la stessa certezza. Tutt’e due combattono, a sentir loro, una guerra giusta ed è proprio un de’ casi che, dicono, soltanto la sorte dell’armi può risolvere. Se l’armi risolvessero davvero la nuova guerra non nascerebbe: non fu deciso dall’armi che la provincia toccava alla nazione ladra? L’armi non risolvono che per un po’ di tempo, a volte cortissimo: finché il vinto non è ridiventato, o gli pare, più forte. Ma se la prima nazione non fosse stata ladra e la seconda non fosse vendicativa e orgogliosa – ché spesso più che la perdita di terreno si vuol restaurare l’«onore» - non ci sarebbe stata nessuna guerra: né quella palesemente ingiusta né quella palesemente giusta.

 Credere che una rivalità si possa spegnere a suon di colpi è sentimento di selvaggi e di fanciulli. O la guerra è sterminio totale del popolo nemico, fino all’ultimo poppante, o non è fomite d’altre guerre prossime o lontane. La boria del vincitore, o la necessita di tenersi stretto il bottino, lo sospinge a nuove guerre; la rabbia e l’umiliazione del vinto l’aizzano a nuove guerre. Sangue chiama sangue e strage vuole strage. L’armi distruggono ma non risolvono. Le guerre terminano colla pace ma con paci che son preparazioni a future guerre. E gli uomini son sempre, secolo dopo secolo, in istato di guerra: di guerra minacciata e allestita o di guerra dichiarata e guerreggiata. E tutti gli stati sono a perpetuità belligeranti. Tanto combatte quello che prepara le polveri per far paura quanto quello che l’adopra per dimostrate che non ha paura.

Tutte le condizioni e tutte le ragioni si prestano per muover guerra.

Se una nazione è piccola fa guerra per ingrandirsi – s’è grande, poiché l’appetito cresce col possesso, per diventare ancora più grande. Un popolo povero fa guerra colla speranza di arricchirsi – un popolo ricco per intimorire chi volesse togliergli la fortuna e il primato. Se la popolazione s’è accresciuta troppo in un paese troppo angusto si fa guerra per acquistare nuove terre. Se la popolazione diminuisce si fa guerra ai vicini invidiati, prima che la differenza diventi troppo forte. Se una nazione non ha confini sicuri fa guerra per assicurarseli. Se un’altra fu altra volta offesa o sconfitta fa guerra per rivincere e cancellar la vergogna. Se una razza giovane ha un capo ambizioso costui la conduce per il mondo in cerca di vittorie e di prede. Se un usurpatore ha conquistato, per un colpo di mano, un trono non suo s’affretta a far guerre per ubbriacare i sudditi di gloria e crearsi una propria legittimità sui campi di battaglia. Se un paese è diviso internamente o malsopporta i suoi capi questi cercano di far guerra per ricondurre, dinanzi al pericolo, la concordia e per rassodare il loro dominio: una dinastia bandita fa guerra per riacquistare il suo regno; un governo sorto dalla rivoluzione col pretesto di portare la luce e la libertà all’altre genti. Se una popolazione selvaggia o barbara non accoglie a braccia aperte i civili che, colla scusa dell’incivilimento, vogliono comandare e sfruttare, gl’incivilitori le muovon guerra di sterminio. Anche la religione serve di pretesto a far guerra a coltello a un’altra razza: per ristabilire l’ortodossia o estirpare l’eresia si son azzuffati e decimati popoli interi, e hanno messo a sacco e fuoco campagne e città. non vuoi riconoscer colui che vietò perfino il pensiero dell’omicidio? E allora ti sgozzo. Persisti nell’andare alla messa e nel riconoscere il Papa? E allora sei degno d’archibugiate.

E quando mancano, per caso, le guerre esterne non sia detto che s’interrompa il nobile esercizio dell’armi e l’estasi della carneficina: c’è la risorsa della guerra civile, che per molti è più voluttuosa dell’altre. Ammazzare chi si conosce e dette occasioni precise di risentimento è gioia assai più grande che sparare contro nemici che si vedon per la prima volta.

L’immensa e perpetua popolarità della guerra è una delle infinite prove che non abbiamo sormontato la fase barbarica. lo scientismo, con tute le sue macchine e le sue magie, non ha svelto la barbarie ma le ha dato maggior potere di nuocere. La civiltà è di pochissimi spiriti per nazione e per secolo – e sono gl’inascoltati. Il ragazzo che vuol togliere a un altro la mela o la tromba ricorre ai suoi pugni; il selvaggio che vuol procacciarsi carne umana da stuprare o divorare non conosce altro mezzo che le sue frecce e le sue lance; il delinquente che vuole spogliare il passeggero o vendicarsi d’un rivale adopra il suo coltello o il suo fucile. Nel genere umano, a dispetto dei monumenti, delle biblioteche, dei poeti, dei saggi e di tutta l’ostentata bellezza dei sentimenti e delle parole, risorge perennemente il fanciullo, il selvaggio, il delinquente. Invece del pugno il cannone, invece delle frecce gli obici, invece delle lance le bombe, invece del coltello le baionette – ma sempre ammazzare per ottenere ciò che non è nostro o per far male doppio a chi fece male a noi. Avidità e rancore sono le radici d’ogni guerra. L’avidità si chiama difesa del commercio, della libertà o del dominio dei mari, delle zone d’influenza o degli sbocchi commerciali; il rancore piglia nome di dignità nazionale, di passione patriottica, di rivincita, di gloria – i tamburi risuonano, le bandiere sventolano e milioni d’uomini si precipitano gli uni contro gli altri, per morire e far morire. Si spendon miliardi per ottenere un’indennità di milioni, si fa uccidere cinquecentomila soldati per occupare una città di centomila abitanti, s’incendia e si rovina tutta una regione ricca d’alberi e di case per conquistare un deserto.

Tutto l’ingegno nostro s’adopra alla ricerca di strumenti offensivi sempre più micidiali. E più infernali sono e più siamo lieti. non contenti di combatter sul mare si sono inventati navi che vanno sott’acqua; non contenti di macellarsi sulla terra abbiamo fabbricato trespoli volanti che buttano la morte anche dal cielo. Gli esplosivi, per quanto sempre più potenti, non son parsi bastanti: e le nazioni più dotte van fabbricando vapori velenosi e colture di bacilli che faranno strage di quelli sfuggiti al ferro e al piombo, anche degli inermi. E fin da ora c’è chi fucila gli ostaggi e fa piover proiettili sulle città indifese.

In antico i soli guerrieri erano i patrizi, i possidenti, i signori guidati dal loro re; poi si stipendiarono mercenari e condottieri; dopo si ricorse ai volontari e partecipò alle guerre soltanto chi volle andarci; colla Rivoluzione tutti i giovani validi, contenti o no, furon presi e portati al fuoco; nelle guerre di domani tutta la nazione, anche i vecchi e le donne, dovranno per forza prender parte allo sterminio, come ausiliari o come vittime. Nessuno sarà lasciato in pace e sicuro della vita; anche il più sperso borgo potrà essere distrutto dalle mitraglie celesti ed anche le giovanette dovranno preparar munizioni o far guardia.

Gli eserciti, prima, eran piccolissimi in confronto alla popolazione e le battaglie dove morissero a miglia rarissime – domani tutta la nazione sarà esercito e sterminato il numero dei morti. Molte guerre nascono dalla superstizione della quantità ché i popoli, o chi per loro, s’immaginano d’esser più ricchi e felici quanto è più grande il terreno che occupano, come se non ci fossero stati piccoli ben governati e prosperi e immensi imperi dove la gente è taglieggiata e affamata. E la quantità, idolo moderno, vuole quantità sempre più grandi di carne da cannone e di ricchezze distrutte. Non avranno bene finché non avranno trovato il modo di mutare in tre minuti una metropoli in necropoli o di far saltare in un attimo, con una mina titanica, mezzo continente.

Eppure c’è chi vanta la guerra come maestra e suscitatrice di virtù. La pace, dicon costoro, porta all’egoismo, alla mollezza, alla putrefazione: un bel lavacro di sangue, una buona purificazione attraverso il fuoco e le razze ripiglian vigore e purità. Nessuna causa è così informe che non trovi sofisti per patrocinarla. Ed è sofisma che la guerra ristori le virtù perché quelle virtù che rimette in onore son giustappunto quelle utili al fin della guerra: e se la guerra è un male quelle virtù non son vere virtù e se la guerra non fosse quelle virtù sarebbero inutili. Ed è sofisma mettere in mostra queste false virtù e non far parola di tutti quegli altri istinti e incentivi di peccato che piglian forza dalla guerra: il dispregio della vita umana, il saccheggio, lo stupro, il gusto del sangue, gli abusi dell’autorità, la sadica gioia di far soffrire; mali che annullano cento volte quei pretesi beni. Basta guardare a quel che divengono i popoli dopo le guerre, vittoriosi e vinti che siano, per accorgersi che invece d’inalzarsi s’abbassano. Mai come nel dopoguerra s’è visto vigoreggiare l’ingordigia dei guadagni, la sfrenatezza della lussuria, l’amor del lusso, dello spreco, della violenza e dei divertimenti più vani ed ignobili. Ed è sofisma asserire che i popoli in pace non pensano che a’ propri affari e s’infognano nell’egoismo ché i migliori hanno maggior libertà per consacrarsi all’alte cose, e il mercanteggiare non è la passione di tutti ed è passione che nelle guerre trova, anzi, il suo tornaconto. E quando si volesse spendere la pugnacità naturale ch’è nell’uomo ci son tante battaglie da combattere, senza ricorrere alla guerra barbara! Guerra contro l’ignoranza, contro l’ignoto, contro la natura, contro la selvaggeria civile, contro la miseria, contro il peccato. Ma queste guerre vogliono animo nobile, intelligenza aperta, cuore generoso e sono, perciò, assai più difficili, e per conseguenza più schivate di quella che versa sangue. Il più sciocco scalzacane, purché abbia le membra al completo, è abile a tirar fucilate mentre per la guerra santa del bene contro il male occorrono eroi, non eroi ammazzatori o strateghi, ma eroi di volontà, di genio e d’amore.

Anche a proposito dei capitani famosi si parla senza pudore di genio e v’è chi pone tra i grandi ritrovati dello spirito umano l’arte della guerra. La quale arte il più celebre e fortunato capitano dei tempi moderni, Napoleone, faceva consistere in questi due principi: aver sempre forze maggiori in quel punto dove il nemico attacca od è attaccato; far credere al nemico di aver più soldati di lui e a’ propri soldati che il nemico ne ha meno di quel che veramente ne ha. In altre parole ingannare gli avversari e i nostri e fare in modo d’essere sempre in due o tre contro uno. Darla a bere ed essere in più: menzogna e forze doppie: a questo si riduce la sublimità della scienza militare. Segreti senza dubbio utilissimi per il fine che si propongono ma dove non c’è nulla che permetta di parlar di genio e tanto meno d’eroismo. Se tutto il valore consiste nel portare in un dato punto un numero soverchiante di battaglioni e di cannoni non s’ha diritto di parlar d’eroi. L’eroe è colui che combatte coi pari o, più spesso, contro forze superiori e vince a dispetto di tutti i calcoli.

Ma neanche il numero e gl’inganni valgono a far vincere le battaglie: tutto dipende da moti d’animo dell’esercito e il primo che dubita o si scoraggia è travolto anche se ha più reggimenti e se ha fatto fin allora più vittime. E vincer le battaglie non vuol dire vincer le guerre: moltissime volte è accaduto che i popoli a’ quali son toccate, per lungo tempo o fin quasi alla fine, le sconfitte hanno poi finito, per maggiore ostinazione od astuzia, col vincer la guerra.

Perché quando sia ammesso il fine di vincere tutti i mezzi son buoni. Coloro che vorrebbero salvare, in guerra guerreggiata, le guarentigie della morale, dell’umanità, del diritto delle genti e della religione, sono gli ultimi fra gl’imbecilli. La guerra ha la sua ragione d’essere nella distruzione del nemico; più male si fa al nemico e migliore è la guerra in quanto guerra. Perciò lo spionaggio, le fucilazioni dei non combattenti, l’abbandono dei feriti avversari, lo strazio dei prigionieri, il bombardamento delle città aperte, l’incendio delle case e dei boschi, il siluramento delle navi non combattenti, tutti gli orrori che gl’ingenui condannano, sono perfettamente giusti e ragionevoli quando si sia ammessa la legittimità e necessità della guerra. Costoro avrebbero ragione se condannassero la guerra in sé, qualunque guerra, ma fanno ridere quando ammettono l’assassinio eppoi gridano perché l’omicida non ha disinfettato la lama del pugnale o perché non ha un cordiale in tasca per far rinvenire il colpito.

La logica della guerra porta allo sterminio totale e radicale del nemico e dei suoi beni. ogni guerra che non annienta l’avversario per sempre e non gli lascia neppur gli occhi per piangere e non trasforma il paese vinto in un carnaio silenzioso è una guerra a mezzo, un abbiccì di guerra, una guerra che bisogna sempre ricominciare. Il vittorioso autentico sarà colui che un giorno rimarrà solo in mezzo all’ossame universale dopo aver tolto la vita all’unico antagonista superstite.

24 ottobre 1928

 

Giovanni Papini, Rapporto sugli uomini, Rusconi, Milano, 1977, pagg. 304-311

 

 


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